Avvicinarsi all’opera “Mausoleo e Celebrazione” di Giovanna Pieralisi non è per niente facile. Il quadro non si spiega da solo, si pone come un enigma da risolvere. Un’opera d’arte che non si svela al primo colpo assomiglia un po’ ad un labirinto: ci possiamo avventurare dentro ma non siamo per niente certi di trovarne il centro. E, forse, neanche la via del ritorno.
Guardiamo dapprima la separazione degli spazi, divisi nettamente in due rettangoli: uno sotto, il più grande, nero; un rettangolo celeste con nuvolette, sopra. Questi due spazi, divisi da quella che sembra una sbarra, oppure un coperchio, o un’altra cosa ancora, alla quale la pittrice accenna con il nome del dipinto: il soffitto del mausoleo, che esclude la luce del giorno dal buio della tomba.
Il nero, l’abisso, l’universo, contiene, appoggiata su vaporose nuvole, una figura bianca, luminosa di fronte a quell’immensità di buio. Spazio infinito, notturno, oceano impenetrabile dallo sguardo. Associamo al nero l’ombra, l’inconscio, la morte. Associamo la tristezza, le angosce, la disperazione. La dissoluzione delle forme, la sparizione nel nulla.
Quando la nostra mente sprofonda nel buio, nelle angosce, nelle tristezze, quando ci sentiamo circondati dal Nero, ci sentiamo abbandonati, vulnerabili, fragili. E, al momento peggiore, non vediamo via d’uscita. Di fronte alle grandi crisi possiamo regredire alla posizione del feto, nascondendo il capo fra le braccia. Possiamo ritirarci nel sonno, ma possiamo anche rimanere attenti e svegli. La figura luminosa in mezzo al buio esprime tutte e tre queste possibilità: vediamo una figura rannicchiata nel suo grembo, una testa da uomo anziano con turbante che, con occhi chiusi, si appoggia alla nuca della donna; e il viso della donna stessa che si è girato verso sinistra, il suo lato femminile. Non è né regredita, né addormentata: è sveglia e aspetta. Emana una tranquillità, come se fosse conscia del fatto che il tempo passa, l’angoscia passerà, la tristezza passerà, la fragilità passerà. Il suo essere imprigionato nel buio non è una situazione eterna. Uno spiraglio si aprirà. Lei aspetta. Questa sua attesa non è inutile. Uscirà dal nero della notte, uscirà dalla profondità dell’oceano dell’inconscio, dal suo imprigionamento nella materia, uscirà dal suo Non-Sapere (A-Vidya). Sarà guidata dalle tenebre alla luce, come dice un passo della famosa Brihadaranyaka Upanishad, che si ripete alla fine di ogni lezione di Hatha Yoga nelle scuole dell’Integral Yoga.
La figura femminile, la testa di uomo con turbante e la figura rannicchiata, non sono in contatto una con l’altra. Ciò succede nella sofferenza: non siamo più neanche in contatto con noi stessi. Le parti interiori guardano in tutt’altra direzione, non comunicano, non si aiutano; nessuno guarda in alto (!), nessuno è consapevole della sbarra rimovibile, apribile. Questa silenziosa attesa, che non sa aiutarsi da sola, viene proiettata fuori: non c’è nessuno in avvicinamento. Forse gli altri ci sfuggono perché il nostro dolore è troppo grande anche per loro. Si proteggono contro il nostro dolore, dicono “Fatti forza”, come se una persona immersa nel buio possa riuscirci. E c’è anche chi pretende di non afferrare, e poi c’è anche chi non afferra proprio. Così nasce una solitudine assoluta, che può spaventare, ma l’attesa, la fede, la sopportazione della vulnerabilità ci danno anche speranza.
Il fatto stesso che la figura bianca sia luminosa, in mezzo al buio, ci suggerisce che anche nel buio, anche nella materia, esiste ed è presente la Luce dello Spirito. E lo dicono anche i puntini bianchi, le bolle, che potrebbero essere stelle lontane oppure altre figure luminose in distanze immense.
Per quanto gli occhi scivolino dapprima, come magneticamente attratti, su questa figura bianca nel nero; per quanto possa, ad una prima visione, creare inquietudine, un senso di isolamento e abbandono, distacco dalla vita oppure prigionia, imprigionamento in una tomba; o ancora, per quanto da questa figura si diffonda la sensazione di isolamento e fragilità, è pur anche vero che resta in se stessa, immobile, ferma, in attesa. Nella fragilità si può intravedere una forza interiore che regge la situazione, anche se può sembrare definitiva e senza speranza. Mentre per alcuni osservatori può ispirare una sensazione di irrequietezza oppure tristezza profonda, altri forse si sentono avvolti da un senso di accettazione delle cose, o addirittura di anticipazione di ulteriori sviluppi.
La figura luminosa non nutre la sensazione che il luogo nero sia un luogo terribile. Piuttosto fa pensare alla quiete, al riposo della notte. Sosta in maniera pensierosa, sveglia, guardando verso la sua sinistra, come se si aspettasse una soluzione, una risposta da quella parte. Integrato in questa figura è il viso di un uomo, che si potrebbe anche interpretare come il viso di un leone. Lui invece è rivolto verso destra, cioè il lato maschile, ma si appoggia alla figura: dorme, o fa uso della sua forza leonina, solare, ma lascia la donna sola nel suo intento ancora non ben definito.
Da una certa angolatura si evidenzia la figura rannicchiata nel grembo, ricordando le rappresentazioni della Madonna. Il bambino si protegge istintivamente. Così si può intravedere una sequenza evolutiva: un sonno profondo nel bambino, il sognare nel viso maschile e lo sguardo sveglio, consapevole nel viso della donna. Analogamente ad un verso del Rig Veda: Dio dorme nella materia (nel buio), respira nel bambino, sogna nell’uomo e si risveglia nella donna.
La luce della figura luminosa non va oltre il suo corpo, non penetra nel buio, non illumina il suo ambiente. Il mausoleo rimane scuro, al di fuori delle nuvole sotto di lei che sembrano nutrirla, come la terra nutre gli alberi.
Questo cubo della materia, del quale vediamo rappresentata solamente la parte superiore (la sbarra), sembra separare definitivamente il Sopra dal Sotto. Però non è una sbarra d’acciaio. Si tratta di una sbarra mentale, una costruzione della mente.
Quando la mente è pronta si apre il mausoleo: la sepoltura nelle proprie angosce, nelle proprie tristezze, nelle proprie esperienze traumatiche avrà una fine. Anche se, immerso nel buio, non ci si può immaginare con maggior intensità di tornare nell’aria e nella luce, l’aria e la luce ci sono e ci aspettano. Il quadro dipinge questo momento prima della transizione dal buio alla luce, quando la disperazione completa è superata, quando c’è già la nascita della fiducia, la consapevolezza che niente nel mondo in cui viviamo è eterno ( tutto transita, tutto fluisce, tutto cambia in continuazione), perciò neanche il buio può durare per sempre.
Guardando più attentamente, si nota una leggera sfumatura chiara al centro della sbarra, sopra la testa della donna. All’osservatore viene suggerita una possibile, probabile, apertura verso l’alto che permette di accedere al Sopra: il Sopra ci indica con il colore del cielo e qualche piccola nuvoletta che siamo in una sfera più vasta, più leggera, più gioiosa. In questa sfera, sempre al centro del quadro, sospesa nell’aria, si vede una forma ben definita e allo stesso tempo per niente definita: sembra una conchiglia, che si è innalzata sopra il luogo della sua provenienza (mare, buio, materia), che ha una tendenza ad elevarsi sempre più in alto. Ma potrebbe anche essere un orecchio teso, in ascolto. Questa forma, ben delineata in quel preciso momento, è una forma in evoluzione e lo spettatore può soltanto immaginare che cosa ne potrà venire fuori quando crescerà nel tempo.
La conchiglia, essendo per molte tradizioni un oggetto sacro, che coglie la vibrazione primordiale, il suono OM, e lo fa risuonare attraverso la sua struttura, ci dà la sensazione e la direzione dell’evoluzione. Chi intraprende una strada spirituale sa che tutte le lingue, tutti i suoni, come tra l’altro tutti gli oggetti e tutti gli esseri, possono ri-collegarsi ad una vibrazione originaria, unica, che poi, amplificandosi, produce vibrazioni diverse, che a loro volta danno la base alla manifestazione: ognuno di noi ha una base di vibrazione, che ci fa diventare quell’unico esemplare che siamo. L’intenzionalità di questo suono è sottolineata dal Bindu, il punto rosso, simbolo del suono primario. Di fatto, in India molte persone mettono un punto rosso fra le sopracciglia per indicare Ajna Chakra: un livello di consapevolezza che osserva le polarità dell’Universo, le accetta come elementi fondamentali dell’Universo e comprende come vicendevolmente si completino. In quel senso, il Bindu ed il suono OM, indicano la direzione dello sviluppo interiore verso la consapevolezza dell’Unione fra le manifestazioni separate e la loro origine, che è una fonte sola.
Questo percorso non è un’ascesa lineare. E’ un ascendere e discendere, come sa chiunque intraprenda un sentiero spirituale. Ad un progresso segue una regressione, ad un alzarsi segue lo sprofondare, una regressione a come eravamo in passato, come se volessimo consolidare i progressi in tutta l’anima, prima di riprendere altri ascensioni. Essere sospesi in aria continuamente non ci giova. Vogliamo anche appoggiarci su qualche cosa di più stabile, vogliamo essere anche connessi con la materia, con la solidità della terra, non solo volare in aria.
Per quanto questo quadro possa sembrare enigmatico al primo sguardo, attraverso la “meditazione su un oggetto” (che è una pratica di concentrazione) possiamo intuire la tematica fra morte e vita, fra sepoltura e resurrezione (riconducendoci anche alla sepoltura di Cristo e la sua resurrezione). Ci riconcilia con le polarità del nostro mondo e ci insegna ad accettare i dualismi ai quali accenna: tutto deve essere com’è.
E con questo Tutto possiamo identificarci: siamo spirito nella materia, ma siamo anche materia nello spirito (come ci fa intravedere il colore nero all’interno della conchiglia, che sembra evolversi anche in una figura a sé). Va bene sia una versione, sia l’altra. Alla fine si perde completamente l’ansia. Il progresso che cerco, non lo devo cercare: avviene. Sicuramente da questa rassicurazione viene liberata la qualità magnetica, affascinante, che così emerge da questo quadro.
Guardando a lungo, meditando di fronte a questa opera, siamo come ricondotti al silenzio e alla sicurezza che, comunque vada, tutto va per il verso giusto: alla fine del percorso ognuno sarà in grado di celebrare la propria evoluzione, assumendo, in piena consapevolezza, la forma che da sempre è stata, inconsapevolmente, la sua.
Di Usha Piscini